Una corsa dentro la poesia del novecento
"Meriggiare pallido e assorto"
Ed eccoci nuovamente in viaggio sul mio autobus dentro la poesia del 900. Ci fa compagnia ancora per un paio di fermate Eugenio Montale, autore che abbiamo già incontrato nel precedente appuntamento.
Questa volta ci omaggia con un’altra delle sue straordinarie poesie, tra le più antiche, dal titolo "Meriggiare pallido e assorto".
Certamente, il contenuto di questo componimento, che il poeta scrisse nel 1916, e che è contenuto nella raccolta "Ossi di Seppia", emana una latente e malinconica tristezza che si ritrova e si rispecchia nella sua inquietudine di fronte a quello che i suoi sensi traggono dagli elementi della natura.
Ma leggiamo insieme questo splendidi versi:
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Mi emozionano sempre le immagini che riesce a creare. Istantanee che si susseguono con armonia ad ogni frase composta, e che scandiscono il suo stato d’animo. In questo contesto d'estate che abbaglia Montale aguzza - se così si può dire - le proprie percezioni sensoriali, innestando nella natura appena esplorata le sue ansie e i propri disagi.
In un pomeriggio assolato e rovente anche quel muro, lungo il quale cammina sembra infinito, e nel silenzio, risultano amplificati il rumore dei merli e dei rettili sull’arso terreno.
Egli si perde nello scoprire quanto le pazienti formiche siano a volte confuse, ma sempre pronte a riprendere il ritmo e la strada che avevano perso nel loro lavoro e poi, quel mare lontano, che egli lo intravede sotto forma di scaglie, ma anche come cornice che orna il canto delle cicale.
Il poeta prosegue il cammino e nel farlo, realizza come sia triste sentirsi prigioniero della propria solitudine, sotto quel muro bruciato dal sole e che in cima raccoglie dei cocci di vetro.
Evidente traspare, quanto si senta isolato e recluso lungo
quel muro che non potrà mai oltrepassare e che percepisce come una limitazione
alla sua libertà.
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